di
Sandy Carboni
Io vedo tutto. Di giorno e di notte, quando piove, tira vento oppure il sole offusca la vista e, se pur sia stata spesso la madre di leggende antiche quasi quanto le mie rocce, seppur non ci sia niente di più nero delle mie spalle quando scende il sole…anch’io spesso ho paura. E mi nascondo…immobile e silenziosa.
Sinforosa è un bel nome, antico, delle nostre terre. Sinforosa ai tempi aveva sette anni ma non li dimostrava. Sembrava ancora più piccola di quello che era, aveva la pelle chiara come la luna e gli occhi verdi come il mare quando ci sono le nuvole basse.
Quando nacque, nessuna delle donne partecipò, la mamma raccontava che fu un parto talmente veloce e inaspettato che non ebbe il tempo di avvisare nessuno, neanche la levatrice del paese. Era una bambina come tutte le altre, forse solo più silenziosa e fragile e anche d’estate, quando giocava per strada con gli altri bambini, portava la lunga gonna nera che usavano le donne dalle nostre parti. Il freddo le farebbe male, piccina e pallida com’è, pensavano le vecchie del paese.
Soleandra invece era tutta un’altra storia, un nome strano, capelli scuri come la pece e occhi grandi e verdi, portava sempre vestiti chiari e leggeri. Che ragazza strana, pensavano le vecchie del paese. E non si sposerà mai, borbottavano mentre andavano a lavare i panni giù al fiume. Soleandra, come la piccola Sinforosa, non parlava mai con nessuno e aveva negli occhi, a detta delle donne, la coda del diavolo. Invece lei sorrideva, e cantava persino a volte, quando tutte le donne erano impegnate nelle faccende e lei e Sinforosa se ne andavano in campagna, lontano dal paese, a rincorrere lucertole e mangiare pane con il miele.
Quando arrivò l’ultimo nato del paese ci fu una gran festa a Gairo, perché era Sant’Elena e la bambina fu chiamata proprio così.
Un tardo pomeriggio, la neonata e la sua mamma passarono nella piazza. Soleandra incrociandoli si coprì il volto lasciando scoperti solo i suoi grandi occhi verdi. La donna strinse forte la bambina contro il proprio petto e accelerò il passo.
Quel giorno al fiume non si parlò d’altro, la mamma della neonata fu scortata a casa di tzia Gavina e…currendi currendi! Sa meixina de s’ogu a sa pippia tzia Gavina! Gridavano le vecchie di Gairo.
Una volta scongiurato il pericolo tutte se ne tornarono a casa e appena calò la notte, le vidi correre fuori come lepri, tutte insieme, come se si fossero messe d’accordo e sistemare, sul ciglio della porta, scope di saggina e rastrelli rivolti verso l’alto.
Sinforosa giocava nella piazza del paese, rincorreva una lucertola. Ma le lucertole corrono e fanno scatti imprevedibili e così, la piccola Sinforosa, un po’ spaventata e un po’ eccitata inciampò e si sbucciò il ginocchio. Soleandra, che guardava la scena da lontano, in un attimo le era vicino e con un fazzoletto bianco puliva i graffi dal ginocchio della bambina. Sinforosa le sorrise e in un attimo si dimenticò della lucertola e il ginocchio non pizzicava già più.
Ho visto gli occhi di Sinforosa diventare ancora più grigi quando, all’improvviso, Soleandra fu presa per i capelli e tirata su con violenza da una delle vecchie, con un grugno terribile, cattivo e rabbioso. La piccola si ritrovò in un secondo tra le braccia della mamma, che l’accarezzava e aveva gli occhi più grigi dei suoi. La vecchia con grugno sputò tre volte per terra, quasi sui piedi di Soleandra che si allontanava senza dir nulla, a passo svelto e con la testa bassa.
Era tempo di sistemare la strega.
Aspettarono la sera e nella piazza del paese accesero un grande fuoco, le donne cominciarono ad avvicinarsi e le più anziane portarono una seggiola, rosari, fazzoletti intrecciati.
Si misero raccolte in disparte e cominciarono a recitare brebus sotto voce, sussurrando, mentre la piccola Sinforosa, seduta vicino al fuoco, si tirava via le crosticine dal ginocchio. Aveva lo sguardo spento e i suoi profondi occhi grigi tremavano e luccicavano, un po’ per il calore delle fiamme e un po’ per una paura misteriosa e un’angoscia più grande di lei.
La piccola si alzò e passò a fianco al gruppo di donne mentre Tzia Gavina impugnava la seggiola di legno per l’estremità di un piede e con movimenti precisi e sicuri, la faceva roteare.
Soleandra era seduta sul gradino della sua piccola casa diroccata, lontana dalle altre, in fondo ad un piccolo sentiero dal quale si poteva raggiungere la piazza, poco lontano dal fiume, dalla vegetazione fissa e dai miei piedi.
Cantava una canzone sottovoce, ad occhi socchiusi, sin quando ad un tratto, sentì qualcuno tirarle un lembo della gonne di velluto azzurro.
Riconobbe subito la mano della sua piccola amica e, sollevando lo sguardo, vide prima i suoi occhi imploranti e pieni di paura e poi, in lontananza, il fuoco e tutte le donne intorno a tzia Gavina, che rompeva la sedia in pezzi grossolani e li buttava nel fuoco.
Soleandra prese in braccio la sua piccola amica, la portò dentro la sua casa diroccata e la fece sedere su uno sgabello di legno, accanto al caminetto…le sorrise e l’accarezzò. Uscendo
Soleandra uscì socchiudendo la porta e sono certa che mi abbia guardato, dopo aver sistemato una scopa di saggina con le setole rivolte verso l’alto davanti all’uscio, appena prima di prendere il sentiero e andare verso la piazza.
Le donne erano di nuovo riunite ad un lato del grande spiazzo aperto quando, prima di tutte le altre, la mamma di Sinforosa ebbe un sussulto, si portò entrambe le mani al petto e cominciò a tremare. Tutte sollevarono lo sguardo e videro Soleandra accanto al fuoco, in piedi, con gli occhi rossi e il viso pieno di lacrime. Ciò che accadde dopo non ve lo posso raccontare, perché come vi dicevo, anch’io spesso ho paura. Ho chiuso gli occhi e quando li ho riaperti, Sinforosa era seduta nel gradino della casa diroccata e teneva tra le mani la scopa di saggina.
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette…sussurrava passandosi tra le dita le setole della scopa. Un attimo di silenzio e smarrimento e poi di nuovo da capo.
Uno, due, tre…la mamma le mise sulle spalle una mantella, le tolse la scopa dalle mani ed entrò dentro la casa diroccata. La vidi fermarsi davanti al letto di Soleandra, accarezzare il cuscino, chiudere gli occhi e tremare, mentre una lacrima scendeva giù, veloce, sino a precipitare dal mento e bagnare le lenzuola bianche.
Spense la candela che illuminava appena la piccola stanza e tornò fuori.
Sullo scalino trovò un piccolo gatto grigio, come gli occhi di Sinforosa e, proprio come lei, avvolto dalla vecchia mantella.
Con un sorriso triste prese in grembo l’animale che, dapprima, irrigidì le zampe e poi si rilassò tra le sue braccia, sicuro, perché quelle erano le braccia della sua mamma.
Insieme presero il sentiero stando attente a passare lontano dalla piazza dove ormai era quasi tutto finito.
Tornarono a casa, chiusero la porta, cercarono di dimenticare.
Non so come fece, ma continuò a proteggerla per tutta la vita, lasciò che la lunga gonna scura coprisse quel piccolo pezzetto di coda che Sinforosa portava dalla nascita, l’aiutò tutte le notti a non fare del male a nessuno e quando vedeva il grigio dei suoi occhi impadronirsi di tutto il suo corpo la stringeva forte, a volte ferendosi, a volte piangendo, a volte cullandola come se fosse sempre la sua bambina. Gli anni passarono e dopo Soleandra nessuno cercò più le streghe. Nessuno, tranne Sinforosa che, ormai cresciuta, sperava di rincontrare la sua amica, magari trasformata in fata, o in un albero, o in un pezzetto di legno bruciato.