di Martina Lorrai
Seduto sulla nuda roccia di calcare, l’uomo osserva la vallata ai suoi piedi, laddove la vegetazione si fa più rada per cedere il posto alla pietraia desolata ma custode di mille e più segreti. Le sue capre sono lì, impegnate a brucare i pochi fili d’erba che spuntano tra un sasso e l’altro o i profumati cespugli di rosmarino, mentre gli arbusti di ginepro, coi rami già carichi delle prime bacche dell’anno, sorvegliano severi ogni loro movimento. Le capre più coraggiose s’azzardano ad arrampicarsi lungo la parete rocciosa, le campanelle dai riflessi d’oro che tintinnano allegre rivelando la loro presenza anche quando vengono celate alla vista dal possente tronco di qualche leccio, gli ultimi rimanenti di quella che una volta era stata una foresta grande e rispettata. Il vecchio sospira e si abbassa sa berritta sulla fronte solcata da rughe profonde, ognuna delle quali è la gelosa custode di una storia, così come i suoi occhi grigi ma ancora sprizzanti di vita, ora posati sulla misteriosa grotta di Pischina Urthaddala, che da bambino aveva paura di guardare anche solo da lontano per tema d’incontrare lo spettro di una donna avara, assassinata dai frequentatori del Supramonte che l’avevano sorpresa ad annacquare il latte che vendeva a caro prezzo. Ora il pastore sorride ripensando al terrore che provava da ragazzino, eppure ancora oggi avverte un certo timore ad avvicinarsi a quella grotta. O forse più che di timore si tratta di rispetto. Rispetto per le forze della Natura che modellarono l’antro nelle ere remote, dei pipistrelli che l’hanno eletto a propria dimora, del silenzio che impregna le pietre. No, non è più il ragazzino di una volta, ora i suoi capelli sempre più radi si sono incanutiti, le rughe attorno agli occhi e alla bocca si sono moltiplicate, ma il suo desiderio d’imparare non si è mai affievolito. Sospira ancora, una mano stretta attorno al suo bastone e l’altra intenta ad accarezzare la testa del suo pastore fonnese, il cui sguardo è fisso sulle capre per accertarsi che non si spingano troppo lontano, non con il giorno ormai prossimo a declinare e con l’oscurità pronta a inghiottire ogni cosa.In verità il buio non rappresenta più un problema. Da giovane avrebbe dovuto far ritorno in paese a piedi, alla luce di una torcia, o rintanarsi nel suo ovile di pietra e frasche fino all’alba del giorno dopo, ma anche lui si è adeguato al progresso, anche lui ha acquistato un telefonino col quale avvisare la moglie in caso di bisogno, nonché un fuoristrada che gli permetterà d’essere giù a valle in meno di un’ora.Al giorno d’oggi al primo accenno d’imbrunire il pastore raduna le capre, le chiude nel recinto antistante l’ovile insieme al cane e sale sul suo fuoristrada. Talvolta ha addirittura il tempo di fermarsi a giocare a carte con gli amici in uno dei bar del paese.Una volta invece era diverso: col sole, con la nebbia, con la pioggia e persino con la neve lui restava al monte, passando le lunghe serate a preparare il formaggio, ascoltando il canto del vento che ululava attraverso gli spifferi del suo barraccu.Il pastore leva gli occhi al cielo e sorride: tra le nubi sempre più rosa è appena apparsa l’aquila, il cui fischio acuto e selvaggio echeggia tra le pareti rocciose, arrivando fino alle candide pietre del Nuraghe Mereu che svetta in lontananza, sorvegliando severo il Supramonte dall’alto dei suoi millenni di vita; una volta qualcuno gli aveva detto che tra quelle misteriose rovine vivevano delle Janas. Lui non sa se crederci o meno, quel che è certo è che in tutti quegli anni passati a stretto contatto con la natura e i suoi segreti, ha imparato che nulla può essere considerato irreale o parto di una fervida immaginazione solo perché non si è in grado di spiegarlo. Lui stesso da ragazzo era stato testimone di eventi incredibili, come quella notte che aveva intravisto una pana intenta a lavare il corredino del figlio presso la riva di un torrente, o quella sera che aveva avuto modo di osservare la famosa processione delle anime dei morti, che per sua fortuna non avevano fatto caso a lui. Non aveva mai fatto parola con nessuno di quelle apparizioni, il timore d’essere canzonato era troppo forte, ora più che mai, dato che la tecnologia ha preso il sopravvento sopra ogni altra cosa e che tutto ciò che viene considerato insolito viene relegato nell’ambito del fantastico. Solo pochi giorni prima il pastore aveva chiesto a un suo nipote di tredici anni di accompagnarlo al monte per cercare una capra dispersa, ma questi si era rifiutato adducendo come scusa una partita con qualche diavoleria moderna chiamata play. Alla sua età lui avrebbe fatto i salti di gioia ad andare in campagna con suo nonno, i giovani d’oggi invece trovano il suo lavoro e la sua stessa esistenza noiosi, non riescono a capire che divertimento trovi a recarsi tutti i giorni in quell’angolo remoto di Supramonte, a sudare per il troppo caldo nelle giornate estive o a tremare per il freddo negli inverni più rigidi. No, ai giovani quello stile di vita non interessa più, sono sempre meno numerosi quelli disposti a condividere la loro esistenza con la severità delle montagne e con i loro abitanti: dal pigro ghiro al bellicoso cinghiale, dall’astuta volpe al maestoso cervo. Una convivenza non sempre pacifica (lui stesso non disdegna di prendere parte a qualche battuta di caccia, di tanto in tanto ) ma sempre improntata sul reciproco rispetto. Un altro fischio dell’aquila richiama la sua attenzione verso l’alto, verso il cielo sempre più scuro; in lontananza i raggi del sole sempre più bassi a Occidente si spalmano sulle ripide, altissime pareti della Gola di Gorroppu, orrido spaventoso che la leggenda vuole frequentato da fantasmi solitari. Eppure gli Antichi arrivarono fino a lì, stanziandosi nei pressi dei laghetti più o meno profondi e del grande anfiteatro di pietra chiamato Sa Giuntura, come lui stesso spiega ai sempre più numerosi turisti che si spingono fin nei recessi del Supramonte, magari dopo averne sentito parlare alla tv. Il pastore è sempre gentile con loro, disposto ad accompagnarli attraverso i sentieri impervi e mettendosi addirittura in posa per le foto ricordo. Anche lui possiede la tv, quando torna dal monte gli piace sedersi sul divano per guardare il tg: è un uomo del Mondo, non separato da esso, anche lui si adegua ai cambiamenti e se qualche novità può rendere il suo lavoro più piacevole e meno faticoso allora ben venga! Ciononostante non è affatto disposto a lasciarsi sopraffare da essa, i cambiamenti vanno bene fino a un certo punto! La nuova generazione invece non la pensa come lui, a parte qualche eccezione gli ovili sono sempre più moderni e la tecnologia è sempre più presente nel selvaggio Supramonte, i ritmi lenti di una volta ora si adeguano alla frenesia senza senso degli Anni Duemila. È’ un mondo nuovo, dove le persone, pur perennemente collegate tra loro grazie a Internet, non sono mai state così sole. Così incomprese. L’uomo non sa cosa pensare di questo nuovo mondo, dove il rispetto per la Natura e il prossimo viene meno, come la voglia di sporcarsi le mani con certi mestieri, che talora vengono addirittura scherniti. Ciononostante lui continua ad andare avanti per la sua strada, facendo uscire le capre all’alba per farle rientrare al tramonto, mungendole per rivendere il latte o fare il formaggio; magari un giorno suo nipote cambierà idea e vorrà seguire i suoi passi, ma al momento non gli rimane altro da fare che badare da solo al suo gregge. L’aquila fischia una terza volta, perciò il pastore si leva in piedi, richiama le capre e si avvia verso l’ovile e il fuoristrada che ha parcheggiato lì davanti: sua moglie lo sta aspettando e lui non ha alcuna intenzione di farla preoccupare, dato che in quella zona il telefonino prende male e lui non può usarlo per avvisarla del ritardo: dopotutto la tecnologia non si è ancora impadronita completamente del suo adorato Supramonte. E questo non può che essere un bene.